Facciamo il punto della situazione assieme alla Professoressa Ida Pucci Minafra, Direttore del Dipartimento di Oncologia Sperimentale e Applicazioni Cliniche dell'Università degli studi di Palermo.
Professoressa, a che punto è la ricerca sul cancro?
I progressi scientifici realizzati nell’ultimo decennio superano da soli il bagaglio di conoscenze accumulato nei secoli.
Quali sono state le spinte che hanno condotto a questi traguardi?
La crescente consapevolezza del fallimento dei protocolli terapeutici basati sulla indiscriminata eliminazione delle cellule tumorali, che travolge anche categorie di cellule sane in attiva proliferazione, ha fatto maturare la necessità di approfondire le conoscenze bio-molecolari sul “fenomeno” cancro. Questa esigenza ha trovato supporto in contesti internazionali, con la realizzazione del catalogo pressoché completo dei geni umani.
Oggi la comunità scientifica dispone di banche dati in rete, fondamentali per la conoscenza delle alterazioni geniche nelle patologie umane, il cancro in primo luogo.
A fianco, anzi compenetrato in questo nuovo mondo della ricerca, si è sviluppato il settore della bioinformatica, delle biotecnologie e delle nanotecnologie, che permettono di accelerare e miniaturizzare saggi biologici e clinici e di razionalizzare una molteplicità di informazioni, contribuendo al progresso della ricerca biomedica (e non solo).
Nei fatti cosa è cambiato per i pazienti?
Alcuni dati esemplificativi. Prendiamo il cancro al seno: un tumore tra i più frequenti per le donne dei paesi occidentali, in età compresa tra i 45 e i 65 anni, e che ha un indice di malignità molto elevato. Vent’anni fa la sopravvivenza tra le donne affette era di circa il 40% oggi si è giunti all’80%. Si muore di meno, si vive più a lungo, anche se l’incidenza non tende a decrescere.
Negli ultimi anni le campagne di informazione e prevenzione hanno dato frutti, grazie anche al potenziamento degli strumenti diagnostici che permettono di rilevare neoformazioni di dimensioni molto piccole.
Parliamo della ricerca oggi.
La ricerca sul cancro è fortemente intrecciata con altre branche scientifiche: la genetica, la biologia molecolare e cellulare, la biochimica. Ciascuna di queste discipline ha contribuito alle conoscenze sulla biologia tumorale, ma se ne è anche largamente servita come modello sperimentale. Paradossalmente il cancro ha più “dato” alla ricerca scientifica di quanto non abbia fin qui ricevuto.
La cellula tumorale è una cellula dell’organismo, anche se profondamente deviata, non è un parassita o un batterio da distruggere e quindi non si possono applicare criteri o strumenti per la sua eliminazione simili a quelli usati per i patogeni.
Ma conosciamo abbastanza per combatterla?
Ancora oggi non si conosce a sufficienza la biologia cellulare dei tessuti umani. Adesso conosciamo per nome quasi tutti i nostri geni, ma ancora non sappiamo come funzionano, figuriamoci se possiamo sapere come o perchè non funzionano. Ogni cellula eredita dalle sue progenitrici staminali lo stesso identico corredo cromosomico e genetico, ma non tutti i geni si esprimono, cioè funzionano, egualmente in ogni tipo cellulare. Per esempio, le cellule del connettivo esprimeranno collagene, elastina ed altre molecole affini, le cellule della pelle cheratina, i globuli rossi emoglobina e così via. Ovviamente non soltanto, ma è certo che i geni
dell’emoglobina per es. non si esprimeranno in cellule diverse dai globuli rossi. Ecco questa è la sfida carpire il segreto delle regole biochimiche e molecolari che governano l’espressione funzionale dei geni. Sappiamo che esistono controlli per ogni funzione cellulare: per la proliferazione, per il metabolismo, per la motilità per la “socialità” cellulare. Si stima che un organismo umano mediamente contenga 6*1013 cellule, a loro volta organizzate in sistemi funzionali specifici, gli organi e i tessuti. Ebbene le cellule di un tessuto devono funzionare in modo coordinato, pena l’anarchia, ossia il cancro. Una cellula diventa tumorale in seguito ad una serie di alterazione primarie a carico di geni che controllano la proliferazione cellulare, la riparazione di eventuali danni al DNA (oncogeni e geni oncosoppressori).
Nei tumori solidi, l’eventuale accumulo di tali alterazioni (che può restare latente per molti anni) conduce le cellule trasformate a riprodursi fuori dai normali controlli tissutali e a formare colonie cellulari, molto simili a masse embrionali indifferenziate, piuttosto che ai tessuti di origine. Tuttavia finché la massa rimane circoscritta nel tessuto di origine, il tumore definito in questa fase “benigno” può essere rimosso senza lasciare (nella maggior parte dei casi) conseguenze. Se invece le cellule tumorali, nella loro progressione letale, acquisiscono altre proprietà, tra cui la capacità di migrare sconfinando nei tessuti adiacenti, il tumore diviene potenzialmente “maligno” e la lotta per arrestarlo è talvolta impari.
Quanti sono i geni coinvolti nel cancro?
Un dato preoccupante e forse inatteso, emerso da una ricerca condotta da un gruppo di ben 65 ricercatori, pubblicata su Nature lo scorso Marzo, è che circa l’1% dei geni umani è alterato in qualche modo nel cancro. Considerato che il numero dei geni umani attivi si aggira intorno ai 30.000, ne segue che almeno 300 geni sono chiamati in causa nel cancro. Una della scoperte più rilevanti della nuova biologia è quella che mostra come i geni non agiscano da soli, né in cascata lineare, come si descriveva in passato, ma attraverso i loro prodotti primari, le proteine, sono in grado di influenzarsi a vicenda formando circuiti e reti interattive in ambito cellulare. Ma non solo, nella progressione tumorale il microambiente (il tessuto connettivo adiacente con i vasi e le cellule dell’ospite) gioca un ruolo fondamentale nella modulazione del comportamento delle cellule neoplastiche. Basti pensare ai capitoli dell’angiogenesi, della risposta immunitaria, della invasività mediata dagli enzimi della matrice extracellulare. Ecco che le nuove tecniche basate su un approccio di conoscenza globale, le tecniche genomiche (insieme di geni) e proteomiche (insieme di proteine), sono fondamentali per studiare, per quanto possibile, un processo biologico nel suo complesso.
Ma tutti questi geni sono egualmente importanti nell’evoluzione del cancro?
Sicuramente no. Secondo due autori americani la sfida odierna è quella di saper distinguere tra “drivers” e “passengers”. Cioè tra geni che guidano lo sviluppo e la progressione del cancro e geni che sono soltanto coinvolti (che si associano per la via), non avendo da soli potere oncogeno.
Quali sono state le ricadute della nuova ricerca oncologica sui pazienti, e quali le prospettive?
Una prima ricaduta è quella di poter disporre di un numero molto elevato di marcatori molecolari della malattia che consentono di operare una migliore diagnosi e un più mirato trattamento del malato. Il secondo traguardo è l’individuazione di bersagli molecolari, possibilmente specifici per ogni tipologia di tumore su cui progettare adeguati farmaci “intelligenti” o “biologici” in grado di bloccare o correggere ingranaggi molecolari della progressione della malattia.
Il primo farmaco storico di questa generazione è il trastuzumab per il cancro al seno, ma dalla sua introduzione ad oggi se ne sono aggiunti un gran numero, nella cura al cancro del polmone, del rene della prostata, dell’apparato digerente, delle leucemia, con l’obiettivo non solo di sconfiggere la malattia ma anche di migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita del paziente. Traguardi questi ultimi che sembrano già in buona parte raggiunti e che incoraggiano a proseguire nella ricerca biomolecolare che oggi può vantare risorse e tecnologie d’avanguardia.